Perché la fase 2 sta pesando soprattutto sulle donne
Quelli che erano i rischi possibili di un inasprimento — o forse di una maggiore evidenza — del gender gap lavorativo a causa del Coronavirus si stanno confermando come reali. Adesso è il momento in cui possiamo fare i conti. I conti in tasca, letteralmente.
Adesso sappiamo che a causa del lockdown hanno continuato a lavorare solo 6 milioni e 440 mila donne, su quasi 10 milioni di lavoratrici [fonte Istat]. La frazione è semplice: solo i 2/3 delle lavoratrici hanno potuto continuare a lavorare.
A continuare a lavorare sono state quelle donne impegnate in settori quali il Servizio sanitario nazionale, la Pubblica amministrazione, l’istruzione, i servizi bancari e assicurativi, l’assistenza ai non autosufficienti. E le altre?
Una lavoratrice su tre non sta lavorando da quando è iniziato il lockdown
Le altre sono probabilmente rimaste intrappolate in quello che è il carico familiare, in Italia quasi di esclusivo appannaggio femminile, come rivela anche la recente indagine di Ipsos pubblica su Repubblica il 4 maggio 2020.
Sono proprio loro ad essere esposte maggiormente al rischio di perdere il lavoro a causa del Coronavirus, o di dover ulteriormente ridimensionare i propri termini contrattuali e responsabilità lavorative. Questo all’interno del quadro generale italiano che attesta il più alto gender gap lavorativo d’Europa, secondo i dati Istat, che vedono ben 30 punti di percentuali di distacco occupazionale tra uomini e donne.
Secondo un repot de Studi dei Consulenti del Lavoro saranno in 3 milioni le donne con figli minori di 15 anni in forte difficoltà lavorativa senza supporti alla famiglia in questa seconda fase. Di cui circa 1 milione e 426 mila sarà costretta, nonostante i figli minori a carico e nessun sostegno, a tornare in ufficio per svolgere il proprio lavoro e sono in 710 mila a percepire uno stipendio netto inferiore ai 1000 euro.
A questo potremmo aggiungere la dolorosa lettura dei dati dei centri antiviolenza come Di.Re. che registrano un aumento dei casi di violenza domestica [secondo di dati della Polizia di Stato si tratta di un +80%] con un -45% di denunce.
Cosa conterrebbe il decreto c.d. Rilancio?
Al momento le misure contenute prima nel decreto c.d. Cura Italia, poi nelle proposte del decreto c.d. Rilancio sono parzialmente buone ma limitate, secondo il parere di chi scrive. Nello specifico quest’ultimo integra il precedente come segue:
a) Fino al 31 luglio 2020, e per un periodo continuativo o frazionato comunque non superiore a trenta giorni, i genitori lavoratori dipendenti del settore privato hanno diritto a fruire, per i figli di età non superiore ai 12 anni, di uno specifico congedo per il quale è riconosciuta una indennità pari al 50 per cento della retribuzione;
b) Il bonus babysitting viene esteso fino a 1200 euro.Il bonus è erogato per la comprovata iscrizione ai centri estivi, ai servizi integrativi per l’infanzia, ai servizi socio-educativi territoriali, ai centri con funzione educativa e ricreativa e ai servizi integrativi o innovativi per la prima infanzia. La fruizione del bonus per servizi integrativi per l’infanzia di cui al periodo precedente è incompatibile con la fruizione del bonus asilo nido;
c) Congedo di 30 giorni usufruibili anche in via frazionata fino a luglio;
d) i genitori lavoratori dipendenti del settore privato che hanno almeno un figlio minore di anni 14, hanno diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile anche in assenza degli accordi individuali, a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione. Per l’intero periodo i datori di lavoro del settore privato comunicano al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, in via telematica, i nominativi dei lavoratori e la data di cessazione della prestazione.
Non sono proposte atte a lavorare sul gender gap lavorativo italiano, ma a mettere un cerotto su una piaga cancrenosa
Il problema principali di tali proposte è il loro orizzonte temporale: non sono proposte atte a lavorare sul gender gap lavorativo italiano, a sostenere l’occupazione femminile e a riconoscere il carico familiare delle donne lavoratrici. Si tratta di misure che, pur con degli sforzi di miglioramento, rimangono atte a mettere un cerotto su una ferita che nasconde una piaga cancrenosa.
Sarebbe importante pensare soluzioni che, anche nel piccolo, possano cambiare la cultura lavorativa e che si occupino di sostenere il lavoratore e non mortificarlo.
Del resto lo studio di Goldman Sachs Gender Inequality, Growth and Global Ageing, evidenzia come l’eliminazione del gender gap lavorativo potrebbe portare a una crescita del PIL del 22%. Senza contare le conseguenze positive sul tanto desiderato innalzamento del tasso di natalità.
Se non volete farlo per la parità effettiva dei cittadini, almeno fatelo perché conviene.